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Lotto Marzo Ovunque - approfondimenti

Afghanistan

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Il primo regime dei Talebani inizia con la conquista di Kabul nel 1996, dopo un’aspra guerra civile. A seguito della presa del potere da parte da parte del gruppo fondamentalista islamico, sono proprio le donne a subire più duramente le restrizioni imposte: era stato negato loro il diritto all’istruzione, proibendo di frequentare la scuola dopo i 12 anni; non potevano lavorare fuori casa, né guidare bici, auto o moto; non potevano indossare gioielli o truccarsi. Avevano inoltre l’obbligo di indossare il burqa e di essere accompagnate da un uomo quando si recavano al di fuori delle mura domestiche: il loro guardiano poteva essere anche un bambino, l’importante era che fosse maschio.

Il regime dei Talebani dura cinque anni, fino alla sua caduta nel 2001: in seguito all’attentato terroristico dell’11 settembre e al rifiuto di consegnare agli Stati Uniti i leader di al-Qāʿida presenti in Afghanistan, il 7 ottobre 2001 il governo statunitense diede inizio ai bombardamenti sul suolo afghano, appoggiato da una parte dall’opinione pubblica fortemente influenzata dai recenti avvenimenti. A novembre dello stesso anno, la resistenza anti-talebana costituita dall’Alleanza del Nord riesce a riconquistare Kabul grazie al supporto fornito dalle truppe statunitensi. 

Nella decade tra il 2001 e il 2021, dopo la caduta dei Talebani e nonostante le difficoltà che l'Afghanistan continuava ad affrontare, alcune delle restrizioni adottate nei confronti della popolazione femminile erano state eliminate e le donne avevano potuto accedere all'istruzione, al lavoro e alle cariche pubbliche, sebbene questo processo di emancipazione fosse più evidente nei contesti urbani rispetto alle realtà rurali. Nel 2004, quando entrò in vigore la nuova Costituzione, formalmente alle donne erano riconosciuti gli stessi diritti degli uomini. Grazie a questo finalmente potevano sentirsi libere di ridere, ballare, ascoltare musica e addirittura mettere lo smalto. E ancora, le donne hanno potuto ricoprire cariche nella politica, conseguire lauree o eccellere in ambiti sportivi. Molte prendono consapevolezza dei propri diritti e iniziano un atteso processo di emancipazione, che viene però violentemente interrotto il 15 agosto 2021.

Il 15 agosto di due anni fa, infatti, l’Afghanistan si trova nuovamente a fare i conti con il regime totalitario dei Talebani. All’inizio, sotto i riflettori della comunità internazionale, i Talebani sembravano fare promesse assicurando moderazione e inclusione nel loro nuovo regime. Dopo l’iniziale attenzione mediatica, però, oggi la situazione in Afghanistan è passata in secondo piano, e a più di un anno di distanza vediamo invece come ogni giorno aumentino le restrizioni, soprattutto nei confronti delle donne, che come in ogni totalitarismo sono sempre tra le prime a risentire delle aspre politiche messe in atto. 

Oggi l’Afghanistan è ritornato al regime di un tempo. È infatti l’unico Paese al mondo a non permettere l’accesso all’istruzione di secondo grado alle donne e si teme che questo divieto includerà presto anche le scuole primarie. Le donne non hanno quindi più la possibilità di frequentare l’università, nonostante rappresentassero la maggior parte delle persone frequentanti. Da quell’agosto di due anni fa, le scuole femminili sono state chiuse e molte insegnanti uccise. Di nuovo, non è più possibile uscire di casa e viaggiare per più di 72 chilometri senza un accompagnatore di sesso maschile (maharram, un maschio guardiano).1 Dapprima escluse dalle cariche pubbliche e dal sistema giudiziario, ora le donne non possono lavorare fuori casa e sono spesso costrette a sposare Talebani. Inoltre, decine di Centri Antiviolenza sono stati chiusi dai Talebani, che li hanno bollati come “bordelli”, rendendo sempre più difficile per le donne poter accedere a luoghi sicuri e lontani dalla violenza. In molti casi, le dipendenti dei centri sono state costrette a bruciare documenti sensibili e a fuggire insieme alle donne che stavano accogliendo. Molte donne invece hanno dovuto tornare dalle famiglie da cui avevano cercato di allontanarsi per non subire nuovamente violenza. In nome di una legge religiosa applicata alla lettera, i Talebani hanno costretto migliaia di donne divorziate a tornare con i loro mariti violenti. Il divorzio non viene riconosciuto se contestato dal marito e con il nuovo governo sarà ancora più difficile da ottenere, in quanto la maggior parte di giudici e avvocati sono uomini che applicano la sharia. Secondo le norme religiose, infatti, la violenza fisica non è un motivo sufficiente per ottenerlo, e viene concesso solo in caso di infermità mentale o se l’uomo è tossicodipendente. Intanto, le donne che dopo il divorzio si sono risposate temono di essere considerate delle adultere e punite di conseguenza.

Ancora una volta il regime vuole le donne invisibili, zitte, lontane dagli spazi che si erano guadagnate: eliminate dalla sfera pubblica e imprigionate nelle loro case, in nome della legge religiosa islamica che i Talebani applicano duramente. Le restrizioni che subiscono oggi le donne afghane sono funzionali in quanto servono come dimostrazione del potere che i Talebani vogliono legittimare. Non stupisce che il regime instaurato sia estremamente oppressivo in quanto governa in nome della sharia, la legge sacra della religione islamica e fonte suprema di diritto, che disciplina duramente ogni aspetto della vita pubblica e privata senza però essere documento scritto, quindi sfuggendo di fatto ai meccanismi di controllo di uno stato di diritto e ai controlli di organi giurisdizionali indipendenti e imparziali. 

Da quel 15 agosto, l’Afghanistan assiste a un nuovo regime talebano, pronto a un’oppressione sempre più strutturale nei confronti delle donne. Che però non sono disposte ad arrendersi. Le donne continuano a scendere nelle piazze per protestare e rimarcare i loro diritti: non vogliono rinunciare all’istruzione, al diritto di lavorare ed essere economicamente indipendenti, al loro ruolo attivo nella politica del proprio Paese, in altre parole, alla propria autodeterminazione e alla propria libertà, per le quali continuano a lottare ogni giorno, rischiando la propria vita. 

1 https://www.ilpost.it/2022/12/23/diritti-donne-talebani-afghanistan/

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Ucraina

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È passato oltre un anno da quando, il 24 Febbraio 2022, il presidente russo Vladimir Putin annunciò l’inizio della cosiddetta “operazione speciale” nelle regioni orientali dell’Ucraina, decretando di fatto l’inizio dell’invasione russa sul territorio e l’apice di un conflitto che si protrae, a fasi alterne, dal 2014. L’impatto sulla popolazione civile di quest’ultimo anno di guerra è impietoso. Secondo dati dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani, più di 7000 civili sono morti1, e in migliaia sono senza casa, senza elettricità, senza acqua corrente. Sempre secondo dati delle Nazioni Unite, il numero di persone che necessita di assistenza umanitaria è cresciuto esponenzialmente, passando dal milione e mezzo di persone registrato all’inizio del 2022 fino alle quasi 18 milioni attuali2.

È a maggioranza femminile anche la popolazione in fuga: dei circa 8 milioni di rifugiati3 ucraini (accolti soprattutto negli stati confinanti, come Polonia e Moldavia, o negli stati dell’Europa occidentale come la Germania o la Francia), circa il 90% sono donne, spesso accompagnate dai loro figli e dalle loro figlie o da persone anziane. Tra gli oltre 5 milioni di sfollati4 diretti verso le regioni ucraine occidentali, le donne sono il 60%. Le ragioni di questi dati sono soprattutto da ricercarsi nel fatto che agli uomini tra i 18 e i 60 anni è proibito lasciare il Paese. 

La guerra agisce come un moltiplicatore delle diseguaglianze già presenti nella società,  aumenta esponenzialmente le vulnerabilità delle donne e i rischi di essere esposte a violenza di genere, sfruttamento e tratta di esseri umani. Inoltre, i percorsi di uscita dalla violenza sono bloccati. Le autorità giudiziarie e le forze di polizia in alcuni luoghi del fronte non rispondono nemmeno alle chiamate di aiuto, e in altri casi hanno derubricato la violenza di genere a un problema di secondaria importanza rispetto al prevenire i saccheggi, scovare i sabotatori o provvedere all’assistenza umanitaria. Le case rifugio e i Centri Antiviolenza, che continuano a essere operativi tra difficoltà logistiche e mancanza di fondi, sono sovraccarichi e rispondono anche alle necessità legate all’emergenza umanitaria come l’accoglienza degli sfollati, non riuscendo a dedicarsi interamente al loro mandato originale. 

Prima del conflitto, 7 donne ucraine su 105 riportavano di aver subito una forma di violenza nel corso della loro vita. Nonostante i -limitati e tardivi- passi avanti a livello legislativo (come la ratifica della Convenzione di Istanbul nel luglio 2022 e la legge del 2018 di contrasto alla violenza domestica), le crisi provocate dal precedente conflitto nel Donbass, dalla pandemia di COVID-19, e dalla attuale situazione di guerra non hanno fatto altro che erodere i progressi fatti, aumentare l’incidenza della violenza di genere e sovraccaricare i servizi dedicati, che operavano già con scarse risorse.

I casi di violenza domestica tendono ad aggravarsi e ad aumentare con lo scoppio della guerra e la vicinanza alle aree dei combattimenti: già nel 2014-2015 i casi di violenza domestica registrati nelle regioni orientali interessate dal conflitto segnalavano aumenti tra l’80 e il 160%6. È importante sottolineare che la guerra non è la causa della violenza domestica: questa è un fenomeno sistemico, fortemente radicato nella cultura patriarcale e nella disparità di genere, e non è provocato da eventi improvvisi. Come riporta il network europeo Women Against Violence Europe (WAVE), “l’esposizione al trauma bellico è un innesco che può portare a un aggravarsi degli episodi di violenza domestica già esistenti, moltiplicando i fattori di rischio”. Tra questi ultimi, è facile immaginare come la consistente circolazione di armi da fuoco soprattutto tra i reduci dal fronte sia preoccupante.


Esattamente come durante la pandemia, le donne sono costrette in casa dal conflitto insieme al partner violento, con ristrette possibilità di poter uscire e ricevere aiuto da parenti o amici e ancor meno dalle autorità. Diverse fonti riportano la difficoltà nel trovare un posto in una casa rifugio vicina, specie nei periodi di intensi bombardamenti, e addirittura nell’ottenere l’allontanamento del partner dall’abitazione. Per quanto la legge ucraina garantisca la possibilità di richiedere un ordine restrittivo nei confronti del partner violento, emergenze come un bombardamento in corso o la presenza di occupanti per le strade rendono difficili le operazioni di polizia per applicarlo nella pratica. 

I dati del numero nazionale di emergenza, gestito dall’associazione La Strada in collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA), parlano di 17.000 richieste di aiuto nei primi sei mesi del 2022, numeri quasi raddoppiati rispetto agli anni precedenti7, ma che secondo le operatrici restituiscono comunque una figura molto parziale e sottostimata.

Ancora più difficili da stimare sono i numeri delle violenze perpetrate dall’esercito russo. Le violenze sessuali sono da secoli usate in modo sistematico come armi di guerra, col fine di terrorizzare la popolazione civile, compromettere la salute sessuale e riproduttiva delle donne,  e tramite le future gravidanze cambiare la componente etnica della comunità oppressa. Nonostante siano riconosciute punibili dalla giurisprudenza internazionale come crimine di guerra, crimine contro l’umanità, e forma di tortura, le violenze commesse dagli occupanti sono spesso coperte da impunità, in quanto è difficilissimo rintracciare i colpevoli e agire legalmente contro di loro.

Diverse fonti riportano come le forze di occupazione russe si siano rese colpevoli di violenze sessuali nei confronti di donne, bambine e bambini, soprattutto nella regione di Kiev. Le istituzioni e le ONG operanti nel territorio hanno evidenziato che è difficile stabilire con esattezza dei dati, sia perché le donne che hanno subito una violenza non possono fare denuncia finchè non si trovano fuori dall’area di occupazione, sia perché lo stigma legato alla violenza subita le trattiene dal chiedere aiuto, convinte di non poterne ricevere dalle autorità.

Le donne sfollate e rifugiate hanno delle vulnerabilità aggiuntive, legate alla loro necessità impellente di accedere a beni e servizi essenziali come vitto, alloggio, documenti e assistenza sanitaria. La mancanza di reti familiari, di informazioni utili, e la non conoscenza della lingua nel loro luogo di arrivo sono fattori che acuiscono ancora di più la possibilità che finiscano nel mirino delle reti di sfruttamento. Spesso vengono attirate in giri di sfruttamento della prostituzione e di produzione di materiale pornografico attraverso promesse di denaro o di un alloggio gratuito, oppure costrette a lavorare come donne delle pulizie e badanti in situazioni di sfruttamento e senza un contratto regolare. Gli adescatori fanno inoltre sempre più spesso uso dei social network, cosicché sia molto più complesso prevenire e rintracciare le organizzazioni criminali.

Dall’indomani delle proteste di Euromaidan del 2014, la lotta che le donne ucraine hanno intrapreso nelle istituzioni e nelle piazze si è intensificata, si è consolidata e ha raggiunto traguardi importanti. In pochi anni l’Ucraina si è impegnata nelle sedi internazionali per contrastare attivamente la disparità e la violenza di genere, ratificando la Convenzione di Istanbul e altri strumenti internazionali in difesa dei diritti delle donne; a livello interno, la Legge quadro sul contrasto alla violenza di genere ha finalmente fornito degli strumenti chiari, e i fondi per i Centri Antiviolenza e le case rifugio stanno aumentando, nonostante rimangano inadeguati come d’altronde in molti altri Paesi europei.

Le associazioni per i diritti delle donne sono in prima fila nonostante tutto, e rimangono aperte anche durante le crisi che hanno attraversato il Paese in tutti questi anni: dai primi conflitti nel 2014, passando per la pandemia di COVID-19 e l’invasione russa in corso, i Centri Antiviolenza sono sempre rimasti aperti, pure con enormi difficoltà. I più in crisi sono quelli più vicini alla linea del fronte: hanno carenze strutturali di risorse e personale, sono i più vulnerabili ai bombardamenti, e difficilmente ci sono le condizioni necessarie per garantire una piena assistenza psicologica, medica e legale.

La società civile a livello locale, tra cui i Centri Antiviolenza, è in prima fila nell’assistenza umanitaria alla popolazione, conoscendo benissimo il contesto e le sue necessità. Si prendono anche responsabilità umanitarie aggiuntive e straordinarie, distribuendo assistenza medica, beni di prima necessità, o aiutando le popolazioni sfollate e in fuga.

Nel contesto bellico, i diritti delle donne, la loro sicurezza e la loro autonomia sono le prime cose a essere sotto attacco. Le diseguaglianze e le vulnerabilità legate al genere si mostrano in tutta la loro violenza durante le crisi umanitarie, e la difficoltà delle associazioni nell’offrire loro aiuto peggiorano la situazione. Queste ultime sono attive e in prima linea, cosa che viene loro riconosciuta pubblicamente dai canali statali e internazionali, ma ciò non si riflette nell’inclusione delle necessità e delle esperienze delle donne ucraine ai livelli decisionali più alti.

Integrare una prospettiva femminile e femminista rende la risposta alle emergenze umanitarie più efficace sia nel breve che nel lungo periodo, producendo effetti migliori nella ricostruzione post-bellica. Fallire nel riconoscere le voci delle donne ucraine può solo provocare ulteriori diseguaglianze nella società futura. 

https://www.ohchr.org/en/news/2023/02/ukraine-civilian-casualty-update-13-february-2023 

2 https://reliefweb.int/report/ukraine/ukraine-situation-report-10-feb-2023-enruuk?_gl=1*h1r5ny*_ga*NzU2MzI2MDM4LjE2NzgzNTYzMTY.*_ga_E60ZNX2F68*MTY3ODc4NzU5MS4zLjAuMTY3ODc4NzU5MS42MC4wLjA

3 https://data.unhcr.org/en/situations/ukraine#_ga=2.27189373.134288019.1678786695-745921343.1678355859 

4 https://dtm.iom.int/ukraine

5 https://www.osce.org/secretariat/440312

6 https://www.amnesty.it/ucraina-epidemia-violenza-donne-rapporto/ 

7 https://www.undp.org/ukraine/stories/outplaying-danger-raising-awareness-gender-based-violence-through-gamified-reality 

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Iran

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In Iran nel mese di Settembre del 2022 si è creato uno dei movimenti di ribellione più importanti nella storia del paese. Le manifestazioni hanno preso il via dalla morte di Mahsa Amini, la ventiduenne curda morta in circostanze sospette dopo l’incarcerazione da parte della polizia morale. La Gasht-e-Ershad,o polizia morale,  è un corpo di polizia che ha il compito di arrestare coloro che violano le norme sull’abbigliamento e sulla segregazione sessuale: nel caso di Mahsa Amini infatti l’arresto è stato motivato sostenendo che la ragazza avrebbe indossato l’Hijab in maniera scorretta. La polizia si dichiara non responsabile della morte di Mahsa Amini, ma diverse testimonianze oculari e ferite sul corpo della ragazza dimostrano che è stata vittima di un pestaggio in seguito all’arresto.

In poche ore la vicenda è diventata il simbolo dell’oppressione delle donne iraniane, che nei giorni e nei mesi successivi si sono organizzate e hanno manifestato contro l’imposizione del velo e contro tutte le ingiustizie che sono costrette a subire dal governo autoritario degli Ayatollah.

Alle manifestazioni accomunate dallo slogan “Jin Jiyan Azadi” (Donna, Vita, Libertà) hanno partecipato inizialmente moltissime giovani donne,  alle rivolte si sono poi aggiunti anche uomini, lavoratori e studenti. Le azioni all’interno del movimento sono diventate il simbolo della rivolta: Le donne che camminano senza il velo, bruciano i foulard, o tagliano i capelli in segno di lutto per la morte di Mahsa Amini. La repressione delle manifestazioni è stata violenta: ogni giorno si sono contati numerosi morti e feriti e tantissimi manifestanti sono stati mandati nelle carceri, in particolare a Evin, una prigione quasi completamente dedicata a dissidenti della Repubblica islamica.

Secondo quanto riportato da attivisti iraniani di Human Rights Activists News Agency (HRANA),  i manifestanti uccisi sarebbero almeno 451, tra cui 64 minori, oltre 18 mila gli arresti, 159 le città coinvolte nelle proteste e 143 le università in sciopero.Secondo un report di Novembre stilato da Amnesty International ci sono state 21 condanne a morte con l’intento di intimorire i ribelli e bloccare le manifestazioni. Altre fonti riportano di numerose condanne a morte e possibili esecuzioni ancora in corso di giudizio.

Le proteste hanno mostrato la debolezza del governo teocratico: c’è da sottolineare che a ribellarsi è la gioventù cresciuta quando la Repubblica islamica era già stata istituita, Repubblica che avrebbe quindi fallito nel suo intento di “sedare” le ribellioni e l’influenza dei “costumi occidentali” attraverso un’educazione dei giovani che fosse di stampo fortemente conservatore e ortodossa.

A Gennaio le autorità iraniane hanno tentato di bloccare le proteste e evitare le sanzioni internazionali dichiarando di aver abolito il corpo di polizia Gasht-e-Ershad, anche se non si è ancora certi del fatto che le sue funzioni non vengano svolte da altri organi militari. Anche sulla questione dell’obbligo del velo la Guida degli Ayatollah si è mostrata spesso incerta in questi mesi, ciò ha fatto supporre che il governo dell’Iran sia in una fase di debolezza di fronte alle insurrezioni della popolazione.

Anche all’estero sportivə e personaggə si sono schieratə pubblicamente dalla parte delle manifestanti, rendendo sempre più persone, anche in occidente, coscienti di ciò che stava accadendo.

Da Ottobre le proteste in Iran si sono fermate, probabilmente anche perchè le esecuzioni hanno spaventato i manifestanti, e il regime sembra aver riacquistato una parte del suo potere sulla popolazione. Le abitudini delle donne però non sono più le stesse, senza il controllo autoritario della polizia sono sempre più numerose coloro che camminano senza velo per le strade delle città.

Mahsa Amini era curda, pertanto è stata vittima di una doppia discriminazione: era una donna e apparteneva allo stesso tempo a una minoranza etnica. Nella zona del  Kurdistan iraniano ci sono state massicce mobilitazioni della popolazione a seguito della morte della ragazza. I curdi hanno manifestato da dopo il funerale e sono riusciti a far indietreggiare la polizia, che nel frattempo ha sparato e lanciato gas lacrimogeni sulla folla.Il governo iraniano ha sedato le ribellioni dei curdi in maniera molto più dura rispetto a quanto successo nel resto del paese, per far intendere alla popolazione che da sempre si prepara a una lotta per l’indipendenza, che Teheran è pronta a iniziare una vera e propria guerra per negare l’autonomia al Kurdistan. I curdi Iraniani sono meno organizzati rispetto a quelli siriani, iracheni e turchi, perciò hanno chiesto ai gruppi curdi dei paesi vicini le armi per difendersi dagli attacchi del governo iraniano.

Il governo teocratico sciita che guida l’Iran ha ragione a temere le lotte dei curdi, in quanto essi hanno dimostrato, soprattutto in Siria ed Iraq, di essere capaci di organizzarsi autonomamente sotto una forma di governo nuova, detta Confederalismo Democratico. Questo modello è stato teorizzato da Abdullah Öcalan, leader del PKK (Partito dei Lavoratori Curdi) che adesso si trova in carcere in Turchia, e messo in pratica in Rojava (territorio di amministrazione curda in Siria). Il confederalismo Democratico si basa su tre principi: democrazia diretta, ecologia e femminismo. Secondo Öcalan per mettere in atto la democrazia diretta lo stato deve essere sostituito da assemblee locali autonome, riunite per decisioni collettive in assemblee federali, i cui membri sono eletti da ogni assemblea locale. Il principio ecologista è esplicitato come la volontà di costruire una società completamente ecologica, obiettivo che purtroppo non è stato raggiunto a causa della necessità di difendere il territorio dagli attacchi dei fondamentalisti e dei governi dei paesi vicini.

Il principio del femminismo viene messo in pratica con l’inclusione delle donne nelle forze armate, come la creazione della YPJ, unità di protezione delle donne, milizia composta solo da donne che combatte per difendere il Rojava dall’ISIS. Per mantenere la parità in ogni ambito, tutte le istituzioni devono avere co-president* di ogni sesso e in tutto il territorio si applicano leggi paritarie sul matrimonio civile, il divorzio e per le eredità. Il principio di parità su cui si basa la legge del Rojava mette in forte crisi i governi del medio-oriente perchè dimostra che il superamento di una visione ultra-conservatrice e patriarcale è possibile anche all’interno del loro panorama culturale.

Lo slogan “Donna, Vita, Libertà” collega con un unico filo rosso tante rivendicazioni e lotte diverse, tutte accomunate dal fatto che sono le donne a schierarsi in prima linea per difendere la loro libertà con coraggio, anche se dall’altra parte c’è una società che cerca di farle tacere in tutti i modi.