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Il cimitero dei feti, una violenza istituzionale

Cimitero feti

Il 28 settembre 2020 nella giornata mondiale dell’aborto libero e sicuro, è stata resa nota una vicenda esemplificativa di ciò che accade a Roma alle donne che abortiscono e che riguarda soprattutto il trattamento a loro riservato in merito alla sepoltura dei feti. Una donna ha scelto di rendere nota l’esperienza negativa che ha dovuto subire e questo ha portato alla luce una terribile pratica, la quale prevede che i feti vengano sepolti in una specifica area del cimitero con una croce bianca che riporta il nome della donna che ha abortito. Si tratta di una violenza istituzionale che colpisce ancora una volta le donne che decidono di ricorrere ad un diritto garantito dal nostro ordinamento.

In questo caso la violenza riguarda ciò che avviene dopo l’aborto, ovvero la disposizione del feto. Nei moduli dell’interruzione volontaria di gravidanza, che dovrebbero spiegare ogni passaggio che compone questo percorso, quasi mai vengono chiarite le procedure che riguardano la sepoltura o meno del feto. Non c’è nessun obbligo informativo nei confronti delle donne per quanto riguarda questa fase e spesso alle donne che chiedono cosa succederà dopo, come si può agire a questo riguardo, viene risposto di lasciare perdere, che non devono pensare anche a questo. 

La donna ha il diritto di chiedere o rifiutare una sepoltura per il feto ma spesso capita che alla donna venga chiesto, a voce, solitamente subito dopo aver abortito, se desidera far seppellire individualmente il feto.  Alle donne che non desiderano procedere con questa modalità, non viene spiegato che questo percorso personale può concludersi con una croce nel cimitero con su scritto il nome e cognome della donna.

Esiste una legislazione che regolamenta la sepoltura dei feti o dei prodotti del concepimento, è il Regolamento di polizia mortuaria n. 285 del 1990.  Questo regolamento adotta una distinzione in base all’età gestazionale: bambini nati morti dopo la 28^ settimana, feti di età gestazionale tra la 20^ e la 28^ settimana ed i feti di età inferiore alla 20^settimana.
Nel primo caso la sepoltura avviene sempre, mentre nel secondo caso avviene con permessi rilasciati dall’autorità sanitaria competente. Invece, per quanto riguarda la terza casistica, feti inferiori alla 20^ settimana, la sepoltura è solo facoltativa e deve avvenire su richiesta. Al primo comma il regolamento si occupa dei “nati morti” rimandando a un regio decreto del 1939. Il feto, di presunta età gestazionale superiore alle 28 settimane, se viene dichiarato come nato morto seguirà gli stessi procedimenti che autorizzano la sepoltura di una persona defunta (registrazione anagrafica e sepoltura). Al comma due dello stesso regolamento si legge che: “Per la sepoltura dei prodotti abortivi di presunta età di gestazione dalle 20 alle 28 settimane complete e dei feti che abbiano presumibilmente compiuto 28 settimane di età intrauterina e che all’ufficiale di stato civile non siano stati dichiarati come nati morti, i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale”. Al terzo comma invece si legge che: “A richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti con la stessa procedura anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane”.  Immediatamente dopo il terzo comma viene specificato che “nei casi previsti dai commi 2 e 3, i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione od estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale accompagnata da certificato medico che indichi la presunta età di gestazione ed il peso del feto”.

Se da parte dei parenti non avviene nessuna richiesta, superate le 24 ore, essi perdono ogni diritto. Ed è in questo momento, attaccandosi alle parole “o chi per essi” che entrano in scena le associazioni che “difendono la vita”. Costoro, grazie ad accordi con gli ospedali dispongono del feto con la libertà di seppellirlo secondo cerimonia religiosa. Persone legate all’associazione, senza alcuna delega o autorizzazione da parte dei parenti, si recano negli ospedali a ritirare i feti a cui fanno poi il funerale, processioni e letture sacre, preghiere e canti di cui i parenti, gli unici ad avere un ruolo ed un diritto, non sono minimamente informati. Tutto questo, sebbene assurdo da ogni punto di vista logico e lesivo dei diritti e della sensibilità delle uniche persone coinvolte direttamente nella vicenda è completamente legale.

Gli accordi stipulati da queste associazioni con gli ospedali, ed i Comuni stabilisco infatti che le suddette associazioni si impegnano a passare negli ospedali e raccogliere i feti in contenitori speciali biodegradabili. I costi di autorizzazioni, trasporto e sepoltura ricadono interamente sulle associazioni, sollevando così gli ospedali da questo onere. I Comuni solitamente mettono a disposizione gratuitamente l’area dedicata, eventuali scavi e lavori, e gli operatori cimiteriali che si occupano del seppellimento.  

Nonostante questa procedura sia legale, invece non è legale apporre sulle sepolture dei feti il nome ed il cognome della madre. 
Questa esperienza, contraria ad ogni diritto garantito dalla Costituzione, non tiene conto né dei desideri e del principio di autodeterminazione della donna né delle norme che garantiscono la privacy, ed è quella vissuta, a Roma, dalla donna che ha denunciato pubblicamente questo fatto e delle molte altre che hanno vissuto esperienze simili o che grazie a questa testimonianza si sono scoperte vittime inconsapevoli di questa violenza.  

In seguito alla scoperta di queste vicende Adele Orioli dell'Uaar, l'Unione atei agnostici e razionalisti, ha affermato come questo evento abbia portato alla luce “questa pratica criminalizzante, che è non solo seppellire con la croce ma addirittura di indicare il nome della madre”. Orioli punta il dito su quella che definisce una “l’ingerenza confessionalista” poiché le sepolture del Comune di Roma, per questa casistica, sono affidate in convenzione alla Caritas, a Sant'Egidio e anche all'associazione “Difendere la vita con Maria”. 

L’esposizione del nome della donna su una lapide pubblica senza il suo consenso costituisce dunque la violazione di un dato sensibile, secondo quanto stabilito, tra l’altro, dall’articolo 9 del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali. Per questo motivo il Garante della privacy ha aperto un’inchiesta per verificare quanto è successo e “sulla conformità dei comportamenti, adottati dai soggetti pubblici coinvolti, nell'ambito della propria materia di competenza”. A questo proposito sono state presentate anche un’interrogazione parlamentare ed un regionale al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Alcune associazioni femministe hanno inoltre annunciato una battaglia legale per la violazione della privacy delle donne, che a loro insaputa hanno ritrovato il loro nome su una lapide cimiteriale.