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"Palpata troppo breve". Cosa succede nei nostri tribunali?

La violenza sessuale non ha niente a che vedere con il sesso, ma riguarda il potere.

Un collaboratore scolastico è stato assolto dall’accusa di violenza sessuale perché “il fatto non costituisce reato”. Ma di che fatto parliamo? Nel 2022 una ragazzina di 17 anni stava salendo le scale della sua scuola quando sente i pantaloni che le calano e una mano le afferrano i glutei e le mutande. L’autore di questa violenza è un bidello di 66 anni, che si permette anche di apostrofarla così: “Amò, lo sai che scherzavo!”. Al processo il bidello nega di averle messo le mani dentro i pantaloni e le mutande, mentre i giudici invece riconoscono che il fatto sia avvenuto, ma per l’imputato arriva l’assoluzione. La motivazione è che “il fatto non costituisce reato” perché “dura una manciata di secondi, senza alcun indugio nel toccamento”. Inoltre, i giudici sostengono che l’azione è stata “maldestra ma priva di concupiscenza”. Le parole di questa sentenza pesano come macigni scagliati contro le lotte delle donne passate e presenti. Una violenza sessuale su una ragazza minorenne da parte di un uomo molto più grande di lei diventa una forma di goliardia, addirittura una manovra “maldestra”. Per assolvere l’imputato si fa cenno anche alla “brevità” del gesto, come se una violenza sessuale potesse ridursi ad una questione di durata.

La gravità di questa sentenza colpisce su diversi aspetti collegati alla violenza di genere. Innanzitutto, si pone la questione della denuncia formale alle violenze. Solo il 25% delle donne che si rivolgono ai Centri antiviolenza sporge una denuncia formale. Quando arrivano notizie come quella che stiamo commentando, diventa più semplice capire perché ben il 75% delle donne decida di non attraversare le nostre aule di tribunale. La sopravvissuta a questa violenza ha fatto il suo “dovere civico”, ha denunciato formalmente il suo violentatore che ha agito indisturbato in un luogo che dovrebbe essere esente da questi comportamenti, la scuola! Lei e la sua famiglia hanno investito tempo, probabilmente denaro e molte energie psicologiche ed emotive per ottenere giustizia. Al momento della sentenza possiamo solo immaginare come si siano sentiti. La Corte ha ritenuto la versione della ragazza come veritiera; tuttavia, quello che ha passato non è stato considerato un episodio di violenza. Sentenze come questa sono pericolose, disincentivano le donne a denunciare le violenze subite, allontanano le donne dalle aule di giustizia facendo ragionevolmente perdere la fiducia nelle istituzioni.

Un ulteriore elemento di preoccupazione rispetto alla sentenza riguarda il fatto che i giudici hanno ritenuto che le intenzioni del bidello non fossero mosse da “concupiscenza”, cioè non mosse da pulsioni di appagamento di un desiderio sessuale. Lo stupro e la violenza sessuale non ha mai un movente sessuale. Il sesso è l’arma con cui viene compiuta questa forma di violenza, non è il movente! Il movente è sempre lo stesso: il potere. Riaffermare, conquistare e dimostrare che il potere maschile è sopraffazione delle donne e delle sessualità non normative. Si commettono atti come questo semplicemente perché si può fare, così questa sentenza non fa che dare man forte al potere patriarcale. La violenza sessuale si usa in guerra, a scopo di pulizia etnica e come arma di umiliazione del nemico. La violenza sessuale è usata come forma di tortura di prigionieri di guerra e prigionieri politici per ottenere informazioni. La violenza sessuale si usa come forma di punizione dei membri delle comunità LGBTQAI+ perché non si adeguano alle norme etero-patriarcali. La violenza sessuale è usata sulle donne di tutto il mondo per umiliarle e ricordare qual è il posto che spetta loro nella società patriarcale, cioè essere oggetto e mai soggetto.

Secondo il report dell’indagine di GREVIO (Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence) del 2019 svolta sul caso italiano, la magistratura italiana è ancora piuttosto indietro sull’applicazione delle prassi della convenzione di Istanbul del Consiglio d’ Europa. Ad esempio, solo il 6% dei tribunali italiani applicano le misure standard necessarie per prevenire le discriminazioni di genere. Solo il 17% dei tribunali ha aperto delle unità specializzate per deliberare sui casi di violenza di genere con personale altamente formato. Solo 1 procura su 4 ha attuato protocolli di collaborazione fra le istituzioni e le associazioni antiviolenza. Questi numeri ci fanno capire come è stata possibile la sentenza di cui stiamo discutendo in questi giorni. I protocolli consigliati vanno applicati su tutto il territorio italiano, questo è l’unico modo in cui le donne possano ottenere giustizia senza subire vittimizzazione secondaria e operare altre forme di violenza che si aggiungono a quelle già subite. Come si può pensare che le donne denuncino se – anche davanti ad un abuso sessuale su una minore – si giustifica l’autore della violenza ritenendo l’abuso stesso un atto “maldestro” e “scherzoso”.

In questo periodo le notizie di cronaca sulla violenza contro le donne sembrano non finire mai, ci ricordano continuamente che questo non è un paese per donne, c’è un tentativo di zittirle, di costringerle al silenzio. Ma come centro antiviolenza continueremo ad urlare “sorelle, noi vi crediamo!”.