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Aborto negli USA: siamo così diversi?

“La terra della libertà, dove le pistole hanno più diritti delle donne”.

Una frase che le donne statunitensi hanno ripetuto spesso nel corso degli anni, e che ora risuona più forte che mai: perché venerdì 24 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, nella sua decisione sul caso “Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization” ha stabilito che l’aborto non è più un diritto federale, ma che la competenza di decidere in materia spetta ai singoli Stati. 

È stata così ribaltata la storica sentenza “Roe v. Wade” che dal 1973 garantiva nel Paese l’accesso all’aborto su tutto il territorio. 

Una decisione che ha riportato il Paese indietro di 50 anni, e che ha subito creato conseguenze terribili per milioni di donne.

Su 50 Stati, 26 (tra cui Texas e Oklahoma) hanno già leggi più restrittive in materia. Nove hanno dei limiti sull’aborto che precedono la sentenza «Roe v. Wade», che grazie a quella decisione non erano stati applicati ma che ora potrebbero diventare effettivi, mentre 13 hanno dei cosiddetti «divieti dormienti» che dovrebbero entrare in vigore entro 30 giorni (le cosiddette trigger laws), che vietano l’aborto ad eccezione dei casi in cui la vita della madre è in pericolo. I 13 Stati sono: Arkansas, Idaho, Kentucky, Louisiana, Mississippi, Missouri, North Dakota, Oklahoma, South Dakota, Tennessee, Texas, Utah, Wyoming.

Il Missouri ha subito rivendicato di essere il primo Stato ad aver vietato l’aborto dopo la sentenza, seguito a ruota dal Texas. Il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha sottolineato che le strutture che offrono le interruzioni di gravidanza possono essere considerate «responsabili penalmente a partire da oggi». Stesso copione in South Dakota, dove una legge specifica con effetto immediato ha stabilito che tutti gli aborti sono illegali «a meno che un giudizio medico ragionevole e appropriato indichi che l’aborto è necessario per preservare la vita della donna incinta».US states

 

La decisione della Corte nel caso “Roe v. Wade”, presa a maggioranza di 7 giudici a 2 il 22 gennaio 1973, si basò soprattutto su una nuova interpretazione del XIV Emendamento della Costituzione, che riguarda il diritto alla privacy, inteso come diritto alla libera scelta per quanto riguarda le questioni della sfera intima di una persona. Sulla stessa base sono stati garantiti altri diritti dalla Corte a livello federale, come l’accesso alla contraccezione e il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

Jane Roe era lo pseudonimo di Norma Leah McCorvey, una donna della Louisiana sposata a un marito violento a cui fu negata una richiesta di abortire. 

In assenza di una legge federale varata dal Congresso, il diritto all’aborto non ha mai avuto basi solide, tanto che anche prima di questa sentenza in molti stati erano già presenti pesantissime restrizioni che di fatto rendevano l’aborto poco accessibile.

Non sempre però codificare un diritto è sufficiente. 

Ne è un caso lampante l’Italia, dove l’aborto è garantito grazie alla legge 194/78: una legge che essendo il frutto di un compromesso tra parti diverse già nella sua formulazione presenta diversi limiti, che si riflettono in una realtà in cui ancora oggi l’accesso all’aborto è fortemente limitato, poco accessibile e a livello culturale ancora molto stigmatizzato. 

L’Associazione Luca Coscioni ha fornito grazie all’indagine Mai dati un’immagine alquanto problematica della situazione italiana attuale. 

Nella mappa sopra riportata sono indicati in rosso gli ospedali con il 100% di medici obiettori di coscienza e in azzurro quelli con una percentuale di obiettori superiore all’80% per tutte le categorie professionali (ginecologi, anestesisti, personale non medico). 

Ci sono 72 ospedali che hanno tra l’80 e il 100% di obiettori di coscienza e 22 ospedali e 4 consultori con il 100% di obiezione tra medici ginecologi, anestesisti, personale infermieristico e OSS. Altri 18 ospedali con il 100% di ginecologi obiettori e 46 strutture che hanno una percentuale di obiettori superiore all’80%. Sono 11 le regioni in cui c’è almeno un ospedale con il 100% di obiettori: Abruzzo, Basilicata, Campania, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria, Veneto. Queste percentuali non rispecchiano effettivamente la realtà, in quanto molti medici non obiettori sono di fatto disponibili solo per eseguire indagini diagnostiche, come le ecografie, ma restano contrari ad effettuare interruzioni di gravidanza. 

Inoltre, i dati sull’obiezione di coscienza non sono affidabili, poiché si verificano casistiche di medici non-obiettori che però lavorano in ospedali in cui non è previsto un servizio di interruzione volontaria di gravidanza, di conseguenza non ne eseguono. Per questo la percentuale riportata dalla relazione di ginecologi non-obiettori che si attesta al 33% va ulteriormente ridotta. 

È sconosciuto anche il numero esatto di punti IVG in Italia: il dato ufficiale (che risale al 2019) è di 356 su 564, ma ci sono state diverse interruzioni del servizio, soprattutto durante il periodo di pandemia, che ad oggi non sappiamo se siano state ripristinate o meno. Gli ultimi due anni hanno infatti peggiorato una situazione già precaria, poiché molti ambulatori per IVG sono stati chiusi e quei pochi aperti erano accessibili solo tramite lunghissime liste d’attesa.

Come riporta anche la campagna “Libera di Abortire” (puoi trovare l’appello qui) oltre all’obiezione di coscienza, è da sottolineare come anche gli ostacoli posti all’aborto farmacologico da parte di diverse giunte regionali (come Marche e Abruzzo) e la stigmatizzazione delle donne che decidono di abortire siano sintomi di un sistema che non funziona. Nel corso dell’inchiesta “In nome di tutte” lanciata da L’Espresso, centinaia di donne hanno raccontato le violenze fisiche e psicologiche a cui sono state sottoposte per mano delle istituzioni pubbliche italiane.

Nell’ultima relazione sulla 194 il Ministero conferma una riduzione del numero di interruzioni di gravidanza, di fatto inserendo l’Italia tra i Paesi con il tasso più basso di abortività a livello internazionale. Questo, che sembra venire letto come dato positivo e indicatore di una legge funzionante, è al contrario il segnale di una grande difficoltà nell’accesso ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza, il che spesso si traduce in pratiche clandestine.

Il Comitato europeo dei diritti sociali, organo del Consiglio d’Europa, ha denunciato i gravi difetti del sistema italiano in tema di diritto all’aborto: il Ministero della Salute da diversi anni non fornisce, neanche su richiesta, i dati aggiornati sulle violazioni dei diritti riproduttivi, sugli aborti clandestini e sulle conseguenze dell’aumento degli obiettori. Per il Comitato, l’Italia viola l’art. 11 della Carta Sociale Europea: “Ogni persona ha diritto di usufruire di tutte le misure che le consentano di godere del miglior stato di salute ottenibile”.

Nessuna risposta è giunta dal Ministero della Salute in seguito alla valutazione negativa del Comitato.

In questi giorni però l’Europa ha risposto agli Usa e ha condannato fermamente la regressione in materia di diritti delle donne e di salute sessuale. Passa quindi la risoluzione che chiede di inserire l’aborto nella Carta dei diritti fondmentali dell’Ue, con 324 voti favorevoli. Una chiara e necessaria posizione per non retrocedere su questo fronte. 

Mentre l’Europa va avanti e negli Stati Uniti si sgretola il sogno americano, l’Italia dimostra di essere molto più vicina all’oltreoceano che ai suoi vicini di casa.