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Zhera Doğan: la storia di un'artista

In occasione delle manifestazioni a sostegno delle rivolte delle donne Iraniane nel Novembre 2022, l’artista Zhera Doğan ha creato un’opera a Padova. L’associazione dei giuristi Democratici ha deciso di regalare questo quadro al Centro Veneto Progetti Donna. In questo articolo approfondiamo la biografia dell’artista e il significato delle sue opere.

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Zhera Doğan è nata nel 1989 a Diyarbakir, una città nel sudest della Turchia. Si è laureata al Fine Arts Programme della Dicle University ed è una delle fondatrici di JINHA, un’agenzia di stampa femminista. Zehra, come molti abitanti nella zona del sud-est della turchia fa parte del gruppo etnico dei Curdi.  I Curdi sono una minoranza che abita un territorio prevalentemente montuoso, il Kurdistan, diviso tra Turchia, Siria, Iran, Iraq e Armenia. La popolazione ha una sua lingua e una sua identità distinte rispetto agli stati in cui il suo territorio si trova diviso, per questo motivosono state portate avanti molte battaglie per l’autonomia del Kurdistan. Negli anni, in tutti i diversi paesi, le lotte dei curdi sono state represse in vari modi a partire dai tentativi di soppressione della lingua locale fino ad arrivare a veri e propri interventi militari. La ribellione curda in Turchia è giudata dal PKK (partito dei lavoratori curdi), un’organizzazione ispirata al confederalismo democratico, simile ed alleata con altre organizzazioni para-militari indipendentiste come KDP in Iran e PYD in Siria. Questi gruppi sono impegnati anche nella lotta contro il fondamentalismo islamico e sostengono la difesa dei diritti delle donne.

La Turchia etichetta queste organizzazioni come gruppi terroristici e questo accade anche in molti paesi europei, tra cui anche l’Italia. L’Unione Europea ha condannato la Turchia per migliaia di violazioni dei diritti umani come esecuzioni sistematiche di civili curdi, torture, spostamenti forzati, distruzione di villaggi, arresti arbitrari, omicidi e scomparse di giornalisti, attivisti e politici curdi. 

La Turchia di Erdogan porta avanti una forte repressione nei confronti di chiunque si ribelli all’autorità dello stato, incarcerando non solo i dissidenti curdi, ma cercando di zittire anche giornalisti e reporter.

Una personalità come quella di Zehra  Doğan  è considerata quasi automaticamente come una minaccia per il regime turco: è una giornalista, un’artista, una donna e una curda.

Nel 2015 la Turchia bombarda alcuni territori del PKK in Iraq mettendo fine al cessate il fuoco concordato nel 2013 e da questo momento il conflitto ricomincia. Nel 2016 la Turchia inizia a colpire le città al sud con maggioranza curda, tra cui anche Nusaybin, la città dove Zehra vive e lavora come direttrice di Jinha. La città viene devastata dai bombardamenti aerei e la popolazione viene costretta al coprifuoco militare per 134 giorni. Durante questo periodo i miliziani vietano l’accesso alla città ai giornalisti e fanno in modo che le uniche informazioni sull’accaduto provengano dalla propaganda del governo turco. I militari pubblicano foto della città distrutta su twitter per documentare il successo militare.

Zhera è l’unica giornalista che riesce a documentare l’accaduto e, vedendo una di queste foto, ha deciso di rappresentare dal suo punto di vista la distruzione della città. La Nusaybin dipinta da Zhera è praticamente identica a quella della foto dell’esercito, sono le stesse macerie, le stesse bandiere turche appese su ciò che resta dei palazzi nella città, la stessa polvere e la stessa desolazione. Se la foto delle milizie mostra i carrarmati schierati alla luce del sole per esprimere la gloria della vittoria, nel quadro di Zhera l’atmosfera è più cupa e i veicoli militari sono rappresentati con l’aggiunta di chele e pungiglioni da scorpione, l’animale che da quel momento in poi rappresenta in tutti i quadri dell’artista la violenza dell’esercito turco.

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Zhera decide di pubblicare il quadro su Twitter e in poco tempo l’immagine fa il giro del mondo, il governo turco la condanna per “propaganda terroristica”.  Per un periodo cerca rifugio a Istanbul, dove lavora a una serie di quadri che intitola “Clandestine days”. A Luglio, durante un controllo della polizia,  viene arrestata e mandata in carcere, dove resta per due anni nove mesi e 22 giorni.

In carcere l’artista conosce molte donne, anch’esse prigioniere politiche, e si confronta con loro. Dopo aver sentito i loro racconti di vita, spesso tragici a causa della repressione del governo turco, decide di organizzarsi per dipingere nonostante si trovi in carcere. Le molte donne che abitano la sua stessa cella sovraffolata decidono di aiutarla a trovare i materiali per dipingere. Fabbrica dei pennelli utilizzando ciocche di capelli delle altre detenute o con le piume degli uccelli trovate nel cortile, giornali e scarti di tessuto diventano le sue tele e i colori vengono ricavati da avanzi di cibo, escrementi di uccelli o sangue mestruale.

Nella sua stessa cella sono detenute molte più donne di quelle che vi si potrebbero ospitare, perciò Zhera è costretta a dipingere sotto al letto o in angoli dove non occupa troppo spazio ed è nascosta dalle guardie. I suoi dipinti vengono confiscati e bruciati dai secondini più e più volte, ma lei non rinuncia a portare avanti il suo lavoro e riesce addirittura ad escogitare un modo per far uscire le opere dal carcere senza farsi scoprire.

Dopo essere stata scarcerata Zhera ha deciso di trasferirsi in Europa, dove dal 2018 ha iniziato a esibire le sue opere in varie mostre, tra cui una al Tate Modern di Londra, la Biennale di Berlino e tre esposizioni in Italia, una a Milano, una Brescia e una a Rimini. Nel 2021 ha pubblicato una Graphic novel, edita da Beccogiallo, intitolata “Prigione numero 5” in cui descrive la sua esperienza di resistenza durante la detenzione.

Adesso risiede a Berlino, ma non intende richiedere l’asilo politico per non perdere il contatto con il suo paese, perciò è costretta a rinnovare continuamente il permesso di soggiorno e le è vietato l’accesso nelle nazioni che non la riconoscono come rifugiata.

In una intervista del 2020 per “Exibart” spiega alla gionalista Silvia Conta

«Lavoro molto sul corpo nella mia arte. Preferisco restituire la mia espressione attraverso il corpo. Questo è il motivo per cui sto elaborando il mio discorso sulla lotta delle donne curde di cui faccio parte, attraverso le figure femminili. Non possiamo separare la situazione in Kurdistan dalle politiche sul corpo femminile. Per migliaia di anni, la politica di guerra, della mentalità maschile è stata portata avanti sul corpo femminile. (...)
La donna nelle mie pitture non è solo curda, ma un corpo mondiale che resiste e combatte contro il sistema panottico della mentalità maschile che comanda e chiede l’obbedienza costante dalle donne, che le forza a guardare in basso mentre camminando, di vergognarsi scusarsi per tutto ciò che fanno e che sono.
In questa mostra ho usato soprattutto le immagini dell’arma per indicare la metafora di “militante” riguardo all’armamento delle donne contro le organizzazioni islamiche radicali in Medio Oriente, e mettere in luce la differenza fondamentale tra ciò che viene definito “militare” in Europa che riguarda chiunque che porta la pistola, e le donne che sono costrette a portare la pistola per proteggersi e difendersi; per dire quanto è sbagliata questa percezione occidentale di quelle donne, senza chiedersi mai come si può mettere fine a questa guerra. Vorrei che i visitatori della mostra sentissero l’empatia con quello che succede alle donne in Medio Oriente»

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