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La violenza ostetrica e la testimonianza di M.

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La violenza ostetrica è ancora un fenomeno sommerso.

Le donne sopravvissute a tale violenza faticano a prendere consapevolezza che ciò che hanno subito non è normale. È un processo lungo e doloroso. 

Spesso le donne non parlano della loro esperienza perché non riconoscono di avere il diritto di denunciare e si sentono sole. Ma si tratta davvero di casi isolati?

Nel nostro Paese l’emersione della violenza ostetrica è stata fortemente incentivata nel 2016, quando la campagna social #bastatacere, che ha rilanciato quella promossa nel 1972 da alcuni collettivi femministi italiani, ha dato voce alle madri e alle loro storie di abusi e maltrattamenti durante il travaglio e il parto. 

È da questa fortunata esperienza che nasce l’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica in Italia (OVO Italia), un organo gestito da un comitato etico di madri con lo scopo di monitorare il fenomeno e sensibilizzare le Istituzioni e l’opinione pubblica sul tema. 

La prima indagine nazionale sulla violenza ostetrica, condotta nel 2017 da Doxa e promossa dall’OVO Italia in collaborazione con altre associazioni, ha portato alla luce un fenomeno drammaticamente ordinario.

Anche alla base della violenza ostetrica troviamo gli stereotipi di genere, che ostacolano la libertà delle donne in ogni ambito della vita. 

E quale credenza è più radicata della predisposizione femminile a sopportare meglio la sofferenza? Quale destino sembra più ineluttabile del “partorirai con dolore”?

 

“Hai solo avuto sfortuna”.

Il 21% delle madri con figli di 0-14 anni, ovvero circa un milione di donne, ha dichiarato di aver subito una forma di violenza ostetrica durante il primo parto o travaglio. 

 

“Hai avuto un parto difficile, le persone che vivono brutte esperienze tendono a esagerare”.

Per 4 donne su 10 l’esperienza del parto è stata segnata da pratiche lesive della propria dignità.

 

“In un momento così non è che possono stare lì a dirti tutto”.

1 intervistata su 2 ha subito un’episiotomia. 

La maggioranza (il 61%), cioè 1,6 milioni di donne, senza consenso informato.

 

Il 32% delle donne ha partorito mediante taglio cesareo. Solo nel 15% dei casi si è rivelato un un cesareo d’urgenza. 

L’indagine conferma il continuo aumento - ingiustificato dal punto di vista clinico - del ricorso a questa pratica in Italia, che registra una frequenza superiore a quella degli altri Stati europei e alle raccomandazioni dell’OMS. 

 

“Vabbè ma non sei un medico, non puoi decidere tu cosa fare”.

Il 33% ritiene di non aver ricevuto un’assistenza adeguata durante il parto e avrebbe voluto più informazioni e coinvolgimento nelle decisioni.

Il 19% ha subito una violazione del proprio diritto alla riservatezza.

 

“Quando sei nata tu era uguale, eppure sei nata lo stesso”.

Al 12% delle partorienti è stata vietata la presenza di una persona di fiducia durante il travaglio.

 

“Lo fanno tutte”.

Il 13% è stato lasciato in balia del proprio dolore senza un’opportuna terapia.

 

“Tutti i parti sono traumatici”.

Per il 4%, circa 14.000 donne ogni anno, la trascuratezza nell’assistenza ha messo a repentaglio la propria vita.

 

“Dici così adesso, ma vedrai che con il tempo cambierai idea!”.

Il 6% delle intervistate ha deciso di non avere altri figli per non ripetere l’esperienza di abusi.

L’evento della nascita di un/a figlio/a non può diventare un trauma. 

Non può essere normale sentirsi espropriate del controllo sul proprio corpo, non avere accesso alla cartella clinica e a tutte le informazioni che riguardano la salute propria e quella del/lla proprio/a figlio/a.

La violenza ostetrica deve essere riconosciuta come violazione dei diritti fondamentali.

C’è bisogno del contributo di tutti/e per garantire il rispetto dei diritti umani delle donne.

Basta tacere.

Troverete l’intera campagna informativa sui nostri social (Facebook e Instagram). 

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La testimonianza di M. 

46 giorni bloccata in un letto di ospedale che era diventato il mio ‘mondo’. Dalla 26esima alla 32esima settimana di gravidanza la mia vita è cambiata da un giorno all’altro. 

Ho vissuto la mia prima quarantena nel 2014 quando, incinta di mio figlio, a causa di minaccia di parto pretermine, sono entrata in ospedale, messa su un letto da cui mi sono alzata dopo 46 giorni appunto.

Ero spaventata perché non volevo che il mio bambino nascesse così presto così mi sono detta: resisti. 

E così ho fatto. Ho resistito quando mi hanno messo una padella che era il mio bagno pubblico, davanti a tutte e tutti. 

Ho resistito quando mi hanno detto che dovevo stare senza biancheria intima. 

Ho resistito quando non mi hanno detto che l’ago canula l’avrei tenuto finché non fossi uscita dall’ospedale.

Quando mi hanno depilata senza nemmeno chiedermi se volevo. Ho resistito al primo bidet in pubblico.

Ho pianto quando in camera capitava la donna che doveva eseguire l’interruzione volontaria di gravidanza.

E ho urlato dentro quando tutto avveniva davanti ai nostri occhi, nell’indifferenza del personale sanitario.

Ho resistito quando ho fatto la foto all’ecografia del mio bambino e sono stata rimproverata perché la cartella clinica appartiene all’ospedale e io non potevo toccarla.

Ho provato rabbia quando il personale medico non si sforzava di spiegare le cose alle donne straniere. Allora lo facevo io.

Ho resistito quando ho preso l’infezione e stavo malissimo ma nessuno interveniva. Quando poi l’hanno fatto sono stata sgridata, come se fosse colpa mia se stavo male. 

Ho resistito quando mi hanno costretta ad alzarmi dopo il cesareo, dopo 46 giorni che le mie gambe non camminavano. Ma non importava: il protocollo dice che ti devi alzare. 

Ho pianto quando, preoccupata per il mio bambino, che era nato con problemi respiratori, ho chiamato la patologia neonatale e mi hanno detto di non disturbare, che dovevo andare a trovarlo negli orari di visita, anche se non riuscivo a camminare.

Per molto tempo ho pensato che dovesse essere compito di una brava futura madre resistere per il bene del bambino. Non mi rendevo conto che la mia accondiscendenza fosse paura di non essere curata come si deve. Pensavo che quella fosse la normalità. Che sentirsi un’estranea dentro un corpo che non ti appartiene, ma appartiene all’Istituzione sanitaria fosse normale. 

Ho capito solo dopo quando importante e per niente scontato sia lo slogan "Il corpo è mio e lo gestisco io".