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Gli atti del tribunale internazionale femminista del 1976. Solidarietà fra nazioni e unione nella lotta al potere patriarcale.

 

Dal 4 all’ 8 marzo 1976 si è tenuto il primo Tribunale internazionale sui crimini contro la donna presso il Palazzo dei Congressi, a Bruxelles. Hanno partecipato oltre 2000 donne provenienti da 40 paesi diversi.

L’idea di istituire un tribunale internazionale nasce in Danimarca nel 1974 e ha lo scopo di unire i movimenti femministi in un movimento transnazionale. Il tribunale in questione non ha giudici, le donne stesse sono le giudici sui crimini. Questa caratteristica trova una spiegazione nel fatto che all’epoca molti dei crimini contro le donne non erano considerati tali da parte delle diverse nazioni di provenienza delle partecipanti e - addirittura - alcuni di questi crimini erano legalizzati (come ad esempio la maternità forzata). Molte intellettuali femministe come Simone de Beauvoir hanno appoggiato e incoraggiato l’evento, che venne poi verbalizzato e pubblicato dalla sociologa Diana E.H. Russell e Nicole Van de Ven nel volume “Crimini contro le donne” edito da Sonzogno dossier.

In questo approfondimento non parleremo di tutti i crimini contro le donne affrontati in quell’occasione, ci concentreremo sui crimini per cui hanno testimoniato le donne italiane e sulle proposte per contrastare queste varie forme di violenza.

  •  La maternità forzata. Le lotte delle donne italiane per l’aborto scoppiarono nel 1975 quando 25.000 scesero in piazza a Roma per rivendicare questo diritto. In Italia, allora, erano circa 3 milioni gli aborti clandestini effettuati ogni anno. Le donne del collettivo femminista comunista di Roma prepararono un audiovisivo che venne proiettato a Bruxelles. Il filmato espone le testimonianze di numerose donne, provenienti da tutte le classi sociali che raccontano “l’impossibilità di vivere il nostro corpo e la nostra sessualità”. Si parla, inoltre, del metodo Karman per effettuare gli aborti, un metodo all’epoca estremamente innovativo, meno invasivo di un raschiamento tradizionale, ma che veniva stigmatizzato come poco sicuro. Sembra una situazione molto simile all’attuale demonizzazione della RU486, la pillola abortiva.  
  •  La brutalità contro le partorienti. Un crimine diffusissimo in Italia contro le donne era la brutalità verso le partorienti. Le numerose testimonianze includevano: l’isolamento delle donne al momento del parto con possibilità di visita solo un’ora al giorno; raschiamenti effettuati senza anestesia; insulti verso le partorienti (“tr**a”; “l’hai voluto un figlio?! Adesso te lo godi!”, ecc...); percosse nel corso del travaglio perché “non aiutavano abbastanza”; manovre invasive e pericolose al momento del parto che hanno comportato gravi disabilità sui bambini. È impossibile non fare un parallelismo coi giorni nostri e il fenomeno della violenza ostetrica .
  •  La doppia oppressione: familiare ed economica. Un grande problema che riguardava le donne era il lavoro domestico non retribuito. Le aspettative sulle donne comportavano la convinzione di una “naturale” propensione al lavoro domestico e di cura rigorosamente gratuito. Il lavoro domestico non retribuito rende la donna schiava, per questo motivo le rappresentati femministe italiane a Bruxelles proposero un fermo rifiuto al lavoro domestico non salariato. Un secondo intervento sul tema, da parte del “Comitato per il salario al lavoro domestico di Mestre”, raccontava cosa succedeva quando una donna rifiutava di eseguire il lavoro domestico gratuito. Riportatono infatti la testimonianza di una donna internata in ospedale psichiatrico per il suo rifiuto di occuparsi delle faccende domestiche e dei figli di suo fratello. La donna in questione venne dimessa solo nel momento in cui manifestò il desiderio di tornare a casa  del fratello per svolgere i lavori domestici. Viene dunque fatto un appello per l’unione delle donne contro il potere patriarcale e medico che le considerava come devianti per il semplice fatto di non sottomettersi alla schiavitù patriarcale.
  •  La doppia oppressione delle donne emigrate. Le donne italiane non solo affrontavano discriminazioni e violenze nella loro nazione, ma anche in quanto donne emigrate in altri paesi. Un caso specifico è costituito dalla Svizzera in cui molte donne italiane erano emigrate da sole o con la propria famiglia. In quanto donne e migranti subivano una doppia discriminazione e erano parte del sottoproletariato. La Svizzera, infatti, accettava le donne immigrate come forza lavoro a basso costo, tuttavia rifiutava di accoglierle in quanto madri non prevedendo alcun supporto di welfare per le donne con figli e costringendole spesso a lasciare i bambini nei propri paesi di origine con i nonni.  
  •  Violenza contro le donne in generale. La violenza contro la bellezza. Un gruppo femminista napoletano, “Le Nemesiache” prese parola per denunciare la violenza maschile contro la bellezza. Le donne in Italia - spiegarono - venivano relegate a oggetto sessuale, costantemente infantilizzate, sfruttate per il lavoro domestico, la bellezza delle donne veniva poi distrutta e ridotta a stupidità e frivolezza. Ci si opponeva dunque ad un intero sistema sociale che veniva spalleggiato e incoraggiato dalla legge e dalle istituzioni.

In seguito alle testimonianze delle donne, il tribunale discusse su alcune proposte di strategie generali. L’Italia presentò una strategia che poteva migliorare su diversi fronti la condizione delle donne italiane: il salario alle casalinghe. Essendo più frequenti i soprusi in ambiente domestico e non ricevendo alcun salario per i lavori di cura, questa proposta puntava all’auto-determinazione economica. E riconosceva nel lavoro domestico non salariato la matrice da cui scaturiscono tutti gli altri crimini, lasciando le donne in balia dei padroni, dei legislatori, dei medici, della polizia e degli uomini in generale.

Come la stampa italiana parlò del tribunale internazionale.  

Una sezione del libro “Crimini contro le donne” (in cui sono verbalizzati gli incontri e gli atti del processo) riassume le reazioni successive al tribunale internazionale, in particolare si parla della reazione dei media dei vari paesi del mondo.

In Italia la notizia venne coperta principalmente dalla carta stampata. Eccetto un eccezionale articolo de La Stampa dal titolo “Tribunale di donne giudica gli uomini”, la maggior parte dei giornali e riviste riporta l’avvenimento tradendo un atteggiamento diffidente nei confronti delle femministe dell’epoca.  Alcuni articoli si soffermano molto sull’aspetto estetico delle femministe presenti al tribunale internazionale, sottolineando come siano “struccate” e vestite in modo semplice (come fa ad esempio Natalia Aspesi su Repubblica o il settimanale femminile Annabella). Franco Ivaldi sul Messaggero ha una reazione alquanto comune per gli uomini che ascoltano testimonianze di donne maltrattate sostenendo: “ È chiaro che le accuse delle femministe non possono venire generalizzate a tutti gli uomini, ma soltanto ad un gruppo limitato di criminali, che si trovano dappertutto nel mondo ”. L’Espresso pubblica un articolo per lo più obiettivo, che però si conclude con l’infelice frase: “Chissà quando torneranno ad amare gli uomini?” .

Questo evento fu la prima occasione documentata di unione di movimenti femministi su un piano internazionale, un’enorme condivisione di esperienze e di denunce dei crimini contro le donne che hanno la medesima matrice, che vale per tutti i paesi lì rappresentati: il patriarcato. Sebbene oggi molte lotte si siano concretizzate in diritti (ad esempio il diritto all’aborto), alcuni paesi stanno “tornando indietro” e molte politiche di contrasto alle diseguaglianze sono tali solo su un piano formale, private da forme di implementazione e sostegno.

È importante non dimenticare la solidarietà internazionale fra donne, in questo periodo molte donne stanno soffrendo e lottando con vigore contro le violenze del potere patriarcale. Non dimentichiamo le nostre sorelle iraniane, afgane, curde e ucraine che, a causa del potere maschile vengono aggredite e dimenticate.