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Aborto negli USA: 50 anni da Roe v Wade

Cinquant’anni fa, il 22 Gennaio 1973, la sentenza “Roe v Wade” della Corte Suprema fissava un chiaro disciplinare di comportamento a livello federale sul tema del diritto d’aborto: garantiva a tutte le donne statunitensi, indipendentemente dal proprio stato di residenza, la certezza del diritto di terminare una gravidanza indesiderata.

Il 24 Giugno 2022 la stessa Corte Suprema, con la sentenza Dobbs v. Jackson Women's Health Organization, ha rimesso in mano agli stati le decisioni in materia di salute riproduttiva, riportando le donne americane nell’incertezza.

Ad oggi, 13 stati hanno usufruito di leggi precedenti al 1973, o di “trigger laws” (leggi grilletto, create per entrare in vigore nel momento in cui Roe v Wade sarebbe caduta) e reso del tutto illegali le procedure d’aborto, rendendolo di fatto un reato penale.  Altri stati hanno imposto pesanti restrizioni: in Georgia, ad esempio, l’aborto è proibito oltre le sei settimane dall’ultimo ciclo mestruale, un periodo di tempo in cui molte non si sono neanche accorte della propria gravidanza.

Dall’altra parte della barricata, invece, numerosi altri stati hanno deciso di potenziare e consolidare le tutele sui diritti riproduttivi. E se diversi parlamenti statali hanno promulgato leggi a favore, altri puntano a inserire esplicitamente il diritto ad abortire nelle Costituzioni statali, in modo da complicare successive modifiche restrittive. A Novembre California, Michigan e Vermont hanno indetto dei referendum costituzionali in tal senso, tutti conclusi con un successo a favore della fazione pro-choice.

I tribunali statali hanno spesso assunto, in questo periodo, un ruolo principe nella protezione del diritto all’aborto: in alcuni casi (come in Illinois) riconoscendone la presenza nella Costituzione statale, in altri (come in Ohio o in Indiana) bloccando indefinitamente una spirale di misure restrittive come divieti totali o parziali.  

Il diritto all’aborto non si risolve nella sua formalizzazione legale, ma deve esserne garantito anche l’accesso a livello sostanziale, senza limitazioni aggiuntive.  Eppure troviamo, anche negli stati sulla carta più favorevoli, delle restrizioni importanti. Alcune applicate direttamente alle pazienti, come gli obblighi del consenso dei genitori, o di sottoporsi a ecografie e counseling “di parte”; altre imposte al settore sanitario, come la richiesta di requisiti aggiuntivi e speciali al medico e alle strutture, o il divieto di prescrizione di farmaci utili all’aborto farmacologico in farmacia. Queste sono misure che da una parte ostacolano il percorso delle donne col fine di farle desistere dalla loro legittima scelta, e dall’altra di complicare con costi e burocrazia aggiuntiva il sistema sanitario, col risultato di ridurre l’offerta di servizi.

 

Alcuni stati hanno approvato tuttavia anche protezioni e facilitazioni specifiche. Le più note sono le cosiddette “shield laws”, leggi-scudo, che proteggono chi effettua un aborto in uno stato dove è legale dalle conseguenze legali negative che potrebbero incontrare nel proprio stato di residenza.
Un altro tipo di protezione è quella economica: alcuni stati hanno incluso nei loro piani di assistenza sanitaria pubblica i fondi per le IVG, una mossa importante soprattutto perché per legge i fondi federali non possono essere usati in tal senso.

Gli alleati, a vario titolo, del diritto all’aborto non mancano, ma la loro azione di pressione pubblica non può essere che ristretta: l’amministrazione Biden, ad esempio, sta rafforzando la promozione e distribuzione di contraccettivi d’emergenza,  e punta a misure per proteggere la privacy di pazienti e operatori sanitari.

La FDA, ovvero la agenzia del farmaco statunitense, ha inoltre reso possibile acquistare entrambi i medicinali utili all’aborto farmacologico direttamente in farmacia, mentre in passato era necessario che fosse un medico a darle direttamente alla paziente che lo richiedeva.

Anche alcune grandi aziende si sono schierate a favore del diritto delle loro dipendenti di abortire, annunciando che contribuiranno alle spese da loro sostenute per viaggiare in uno stato dove l’aborto è legale, se queste vivono in uno stato in cui questo diritto non è garantito.


In conclusione, questa situazione di incertezza federale sulla legislazione federale è destinata a degenerare sempre più, aumentando il livello di rischio per le donne che scelgono di abortire.

Le leggi poco stringenti di privacy digitale fanno sì che dati sensibili come chat, cronologie delle ricerche online, geolocalizzazione e dati delle app di monitoraggio del ciclo mestruale possano essere usati come prove di colpevolezza contro le pazienti e chi le aiuta. L’insicurezza data dal clima di sorveglianza digitale è esacerbata da leggi chiamate “SB8”, presenti in alcuni stati oltranzisti come il Texas, dove qualsiasi cittadino può denunciare un sospetto aborto e vincere soldi nella causa legale che ne consegue. Nonostante alcuni stati e delle grandi aziende del settore digital (tra cui Google o l’app di monitoraggio del ciclo Flo)  stiano lavorando su sistemi di protezione dei dati sensibili relativi alla salute riproduttiva, il clima di sospetto e insicurezza rimane pressante.

Questo clima colpisce anche il sistema sanitario: la legislazione vaga, frammentaria e in costante cambiamento fa sì che non ci si rapporti alle pazienti solo in termini medici, ma che si debbano soppesare ogni volta le conseguenze legali di un intervento. Se a questo aggiungiamo la pressione sul sistema sanitario causata dalle crescenti domande provenienti da altri stati, si ottiene un servizio che spesso viene negato per ragioni pratiche anche a chi ne avrebbe diritto.

Il dubbio che oggi governa il diritto all’aborto negli Stati Uniti obbliga le donne a soppesare la propria salute e l’autonomia sul proprio corpo con una severa repressione giudiziaria. Questo obbligo parla la lingua della discriminazione di genere e del controllo oppressivo sui corpi delle donne.